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Factory Fattori | 29 Marzo 2023

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MINI TROFEI*

MINI TROFEI*
Saverio Fattori

Da qualche tempo si parla di giovanissimi atleti che si cimentano su distanze molto lunghe ottenendo risultati importanti. Personalmente qualche notizia non mi stupisce, né mi fa gridare allo scandalo, altre invece mi lasciano basito, ma ognuno risponde della propria patria potestà e non ho molte competenze scientifiche da mettere in campo per contestare certe scelte, anzi, quasi zero. Ho solo qualche ricordo sfilacciato.

Nei primi anni Settanta le corse podistiche non prevedevano sempre la mini camminata, ovvero una distanza breve per i ragazzi sotto i quattordici anni, all’atto dell’iscrizione davamo l’anno di nascita e sul pettorale veniva messa una lettera che corrispondeva alla categoria, ci buttavano nella mischia ed erano botte da dieci chilometri che avrebbero fermato lo sviluppo ormonale di un cucciolo di cinghiale, ma al tempo i danni che potevano recare all’organismo di un giovanissimo certi eccessi non erano noti, era tutto in divenire. Alcuni mentivano all’atto dell’iscrizione per correre nella categoria con ragazzini più piccoli, era un atto vile, eseguito o avallato dagli stessi genitori. Non era raro assistere a litigi sotto il palco delle premiazioni, contestazioni e urla tra adulti, mentre il bambino con il trofeo in peltro seguiva con sguardo attonito. I trofei avevano la base in marmo da cui in genere svettava una figura angelica filiforme. Dal marmo bianco si elevava appunto l’oggetto il peltro, una lega composta di stagno e con l’aggiunta di altri metalli come il piombo, che poi è tossico. Il peltro non l’ho mai più incontrato nella mia vita, nemmeno ne ho più sentito parlare, non so per quali altri usi sia impiegato, non so perché mai l’abbiano inventato, è grigio spento, ricorda la latta, e non appare tosto come il ferro o l’acciaio, ma piuttosto molle, malleabile, inutile. Ma per vincere il trofeo dovevi “fare” primo, di categoria s’intende, ma dovevi vincerla la categoria, a volte certi mini trofei in plastica te li davano come premio di partecipazione, ovvero lo davano a tutti i partecipanti, ma perdeva di senso, serviva ad attrarre iscritti, c’erano manifestazioni che davano una medaglietta d’argento sottilissima a tutti. A Firenze, alla Maratonina di Natale esagerarono con una coppa a tutti, senza vergogna. Se tutti meritano una coppa allora tutto perde di valore, i simboli erano importanti specie a quell’età hai bisogno che gli adulti ti diano punti fermi. Io vincevo anche coppe “vere”, insomma in certe gare lunghe riuscivo a primeggiare, a entrare anche nei primi tre, anzi, più lunga era la gara e meglio andavo, non avevo la forza necessaria per la velocità e il salto in lungo, che pure mi affascinava con la fantasia di arrivare ai passi in aria, in fondo dal volo di Bob Beamon erano passati solo otto anni, quindi venivo identificato dal Maestro di Sport come adatto alle corse di resistenza. Una sorta di condanna. Se non maledizione. Ecco, in questo sento che qualcosa è cambiato. Al tempo la nobiltà era eccellere nelle distanze veloci, se non eri un talento cristallino venivi dirottato sulle distanze lunghe da correre quindi più lentamente, come nel campetto di calcio in terra arsa e sterpaglie venivi messo in difesa. Non era un fatto positivo fare le distanze lunghe, da ragazzino dovevi essere forte, brillante, ma soprattutto veloce. Perché quelle sono le caratteristiche proprie della fanciullezza.

Io non avevo qualità tecniche specifiche, nessuna magia aveva interessato il mio corpo dalla nascita, e rimanevo incantato guardando anche i saltatori in alto, l’inarcarsi del fosbury o il rapporto intimo dell’asticella del ventrale che ancora veniva usato… io invece ero solo resistente alla fatica, più che altro spirito di abnegazione. A me non sembra una gran qualità, ma mi ero adattato e rassegnato, anche se poi alle scuole medie facevo delle volate lungo il corridoio che mi sembravano velocissime, la mia pista indoor, ma poi sulla pista vera sui sessanta metri troppi andavano più forte di me, anche se le sensazioni che avevo non mi sembravano male, ma solo quando correvo da solo. Ma l’atletica è spietata, fatta di numeri, tempi e distanze, piazzamenti, le impressioni stanno a zero. E io poi in città nelle gare sul nerissimo Bitumvelox, sprofondavo nel grembo di infinite batterie, nell’anonimato di classifiche che mi vedevano molto indietro. I duemila metri mi avrebbero fatto vedere un po’ di luce.

Ma un bel sessanta metri come si deve…

*Articolo già uscito sulla rivista Correre