FRANCO FAVA, IL CUORE OLTRE L’OSTACOLO*

Non è facile intervistare il proprio mito giovanile, sei in una sorta di stato catatonico, è una strana condizione di leggerezza, ma non di completo controllo. Quando al telefono Franco Fava mi chiede che tempi ho, il mio cervello va in blocco, dico no, guarda, lasciamo perdere, tempi ridicoli, ma poi li sparo i miei personali, perché noi podisti in fondo siamo così, le rilasciamo le nostre credenziali. Lui sbotta, no, intendo che tempi hai per l’articolo!
Inizia tutto con questa gag surreale. Ma il vero problema con questo articolo l’ho ben presente ancora prima di iniziare a lavorarci: quella di Fava è una storia di vita atletica che un articolo non può contenere, si rischia un bignami schizofrenico di aneddoti pazzeschi che vanno dal 1968 al 1980, avente con epicentro il 1977, il suo anno magico. Fava prende il testimone da Franco Arese e lo porta alla soglia di un decennio che vedrà noi italiani protagonisti nella corsa lunga a livello mondiale. Decido allora di focalizzarmi sul racconto di alcuni segmenti di questa Storia enorme, di limitarmi a pochi flash, consapevole di non essere esaustivo.
Io sono uno di quelli che crede che in atletica i record, le prestazioni cronometriche, non siano meno importanti delle medaglie. Siamo in pochi a pensarla così, ma questa filosofia probabilmente era anche quella di Fava che correva però con un grosso problema: attacchi di tachicardia che ne hanno limitato i risultati in carriera, pur mantenendolo nell’élite mondiale per molti anni. Fava ha sempre cercato di ottenere prestazioni cronometriche assolute, se il record mondiale non arriva diventa quell’orizzonte che si allontana, ma che bello quel cammino, quei territori attraversati con lo spirito di un esploratore apripista.
La sua prima Olimpiade sarà Monaco ’72, ma per guadagnarsela deve battere il record italiano dei 3000 siepi, è questa la richiesta di Bruno Cacchi, marito di Paola Pigni, allora Direttore tecnico della nazionale, la fa a un ragazzino che non ha ancora compiuto vent’anni, e di tempo ne rimane poco, pochissimo. L’importanza dei tempi, dei record, inseguiti da subito e per sempre, per sondare i propri limiti e gridarli al mondo. Fava aveva messo nel mirino Monaco già da Allievo, lui ragazzotto di provincia tra motorini e Muratti ancora non ha le idee chiare sul futuro, ma si era detto che con un piazzamento tra i primi dieci ai Campionati italiani di campestre, l’avrebbe tentata quella strada. Arriva esattamente al decimo posto. Poi c’è di mezzo la fascinazione per Carolina di Monaco che lo spinge verso i Giochi olimpici del 1972. A Roccasecca, paese natale che ha dato i natali anche al flautista Severino Gazzelloni, nessuno gli aveva spiegato la differenza tra il Principato di Monaco e Monaco di Baviera. Ma il destino fa il suo corso, incurante delle ingenuità giovanili. Il 3 agosto acciuffa in extremis la gara perfetta ai Bislett games diOslo, in realtà prima c’era stato un incontro bilaterale tra nazionali, formula ormai dimenticata, gare quasi sempre molto tattiche, inadatte all’impresa richiesta da Cacchi, vincere non sarebbe bastato. A Oslo trova la gara ideale, tiratissima, e con 8’33”4 cancella il record italiano di Umberto Risi. Èl’ultimo atleta italiano a qualificarsi di tutte le specialità… nonostante la giovane età a Monaco si conferma su questi valori, ma non si qualifica per la finale perché allora i tempi di ripescaggi non esistono. Una foto celebre lo immortala mentre con uno sguardo attonito corre nei pressi dell’edificio nel quale si sta consumando l’attacco terroristico palestinese, due poliziotti a fianco tengono lo sguardo alto a scrutare le finestre e i balconi per comprendere qualcosa delle fasi della tragedia.
Il rapporto con i 3000 metri siepi è ambiguo e non sarà eterno, nasce proprio dal fatto che il minimo di partecipazione olimpico sembra quello più abbordabile, quasi un matrimonio di convenienza con questa strana specialità, perfetta per chi come lui correva forte in pista e in campestre, ma poi la storia si fa amore vero e continua: agli Europei di Roma del ’74 e “solo” quarto, ma con un tempo pazzesco, un 8’18”85 che ancora oggi mette i brividi e che in quel momento vale anche la quinta prestazione mondiale all time. Ad oggi è ancora il quindicesimo tempo corso in tutte le edizioni degli Europei. L’anno seguente a Firenze gli organizzano un tentativo di record del mondo sulla distanza, allora fissato attorno agli 8’14, tempo alla sua portata in quel periodo. Il passaggio a metà gara è perfetto, ad aiutarlo nella prima parte sarà l’amico Roberto Volpi, coetaneo di Fava,semifinalista alle Olimpiadi di Mosca sempre in questa specialità. All’ultimo giro passa in vantaggio di almeno due secondi sul record, ma i battiti schizzano in alto, a livelli inauditi, un maledetto attacco di tachicardia lo costringe a rallentare sul finale, sembra imballarsi, l’ultimo ostacolo lo passa quasi da fermo, a cavalcioni, arriva comunque in 8’22, miglior prestazione mondiale dell’anno.
Due anni dopo Fava pensa di insidiare un altro record del mondo, improvvisando una strategia folle: concerta insieme a un prode inglese il record mondiale dei 10000 metri ai Word Games di Helsinki. Era un meeting che si disputava in due giornate, ma quando aveva saputo che ai 5000 metri del giorno prima era iscritto anche Luigi Zarcone per un attacco al record italiano, Fava decide di scendere nell’arena e di non lasciare questa opportunità al rivale siciliano che stava correndo forte in quei giorni. Gli organizzatori non possono crederci, lo attendevano concentrato sull’impresa del giorno dopo. Gli artisti stupiscono l’umanità media. Fava arriva secondo dietro all’olandese Jos Hermens, batte Zarcone in volata, ma niente record italiano per nessuno dei due rivali.
Comunque, i piani non cambiano: la sera stessa lui e Tony Simmons, un tipo che sembra più il chitarrista dei Queen che un atleta da 2’45 a chilometro, concertano l’impresa davanti a una birra. In effetti le gambe girano, la forma dei due è al top, l’entusiasmo scaturisce dalla consapevolezza che il record di David Bedford, un altro carro armato inglese da ritmo e senza volata, è attaccabile. Si accordano per tirare un chilometro a testa, non erano anni da lepri, poi nel finale ognuno avrebbe giocato le proprie carte.

Corrono forte, molto forte, conducono per sei chilometri perfetti come metronomi, ma si trascinano dietro due giovani keniani, quasi una proiezione del futuro. Sarà Samson Kimobwa a fare il gran colpo, se lo andrà a prendere lui il Mondiale migliorandolo di pochi decimi. Fava è terzo, 27’42″65 dietro a un altro keniano, Mike Musyoki e di seguito, attaccato, Simmons. Kimobwa vincerà qualche settimana dopo la Notturna di Milano, poi a Siena verrà battuto da Zarcone con un tempo molto alto sui 5000.
Quello di Fava è un tempone di quelli pesanti, ma se non avesse corso i 5000 metri il giorno precedente per attaccare il record italiano, se non avesse quella gara sulle gambe, allora le carte per il record mondiale dei 10000 se le sarebbe giocate meglio, anche perché questa due giorni testimonia di uno stato di grazia raro. Barattare un record italiano, fallito per otto decimi di secondo, per uno mondiale, probabile. Una completa follia degna di un grande artista che a volte improvvisa. Fava pur avendo le idee chiare su un obbiettivo non riesce a non tenere conto del contesto generale, il contesto sono le altre gare, gli avversari, elementi che lo distraggono fatalmente dal bersaglio prefissato. Solo dopo pochi giorni, nemmeno una settimana, vola a Turku, sempre Finlandia, senza un obbiettivo particolare, più per amore per quelle terre a lui davvero care. È già negli spogliatoi quando sul tabellone compare 13”21’98, è il nuovo record italiano dei 5000 metri strappato dopo cinque anni al grande Gianni del Buono, padre di Federica.
Fava è l’atleta giramondo, tra i primi a sperimentare gli allenamenti in altura in Bolivia, anche a 4000 metri, In una intervista rilasciata allora dice che sui sentieri di Mitchupichu e di La Paz andava come un treno, venti chilometri al giorno anche oltre i quattromila metri, al limite dell’asfissia.
Famose le sue trasferte in Sud Africa, nel periodo pre apartheid, il podio alla mitica Corrida di San Silvestro a San Paolo del Brasile. Cerca sempre stimoli nuovi, sfida gli atleti più forti di quel tempo a livello mondiale, li va a cercare. Si tratta di esperienze che vanno oltre alla prestazione atletica, sembra ingordo di vita, un avventuriero, la corsa come mezzo per conoscere il mondo più che un fine, è pieno di curiosità. Queste dispersioni di energie e talento non gli impediscono di vincere 5000 metri e 10000 metri alle Universiadi di Roma nel 1975, manifestazione al tempo della massima importanza, va ricordato che ancora non esistevano i Campionati mondiali e che gli Europei si tenevano ogni quattro anni. Fava è per certi versi anche l’atleta degli anni dispari.
Non poteva che essere lui il primo italiano a scendere sotto i 28 minuti a Helsinki, muro che ancora oggi continua ad essere rappresentativo, figurarsi nel giugno del ‘76, la Finlandia è una seconda patria per lui, la prima maglia azzurra da junior la indosserà da quelle parti, ha pure una fidanzatina e sul posto è seguito tecnicamente dal direttore tecnico della nazionale Sinkkonen Kari. in Italia, l’allenatore di sempre sarà Vincenzo Leone, il sodalizio le Fiamme Gialle.
Nel periodo che divide la stagione invernale delle campestri da quello estivo della pista, esegue almeno tre lavori da cinquanta chilometri, fondo lento, tempi nemmeno rilevati, si tratta solo di stare “sulle gambe” in assetto di corsa per molto tempo. Tra dicembre e febbraio del 1977 corre in media trenta chilometri al giorno per tre mesi filati e senza giorno di riposo, novecento chilometri al mese, il tutto intervallato da campestri e gare su strada. In campestre è fortissimo, anche quando il terreno è pesante, quasi imbattibile in Italia, più volte trionfatore al Campaccio, sempre tra i primi al Cross delle Nazioni, in pratica un Campionato del mondo a tutti gli effetti, quarto a Dussendorf nel ‘77, miglior risultato mai raggiunto da un azzurro in questa competizione in campo maschile.


Ma nel mirino c’è ormai la maratona già affrontata con buoni risultati l’anno precedente, esperienza culminata con un ottavo posto alle Olimpiadi di Montreal, un risultato discreto ma non completamente soddisfacente. Ero poco più che un bambino, ma ricordo ancora la foto sulla rivista Atletica, Fava si è tagliato i capelli, come per onorare la massima manifestazione, e il trafiletto: Gli eroi sono tanti, anche italiani.
In realtà l’epifania sulla distanza era arrivata con i Campionati italiani tenuti a Reggio Emilia, prova unica per formare il terzetto olimpico della nostra nazionale. Giuseppe Cindolo, primatista italiano, campione in carica e favorito, pettorale numero uno, indossa una maglietta bianca con la scritta MONTREAL CANADA, è quasi a pagina intera nel servizio di Giacomo Crosa che narra di quella giornata sulla rivista federale Atletica. Il pezzo è curiosamente intitolato La maratona di sempre, sintesi un po’ fuori luogo considerato che fu di livello tecnico spaventoso per i tempi, nulla di usuale, una porta sul futuro. Cindolo chiude in 2’11”50, ma Fava, all’esordio, è solo un minuto dietro, nonostante l’ennesima crisi cardiaca. L’anno prima Cindolo si era aggiudicato il titolo con circa sette minuti in più. È la prima maratona dell’era moderna in Italia, qualcosa sta cambiando, i grossi calibri con personali importanti in pista scendono sull’asfalto e allungano la distanza, preparandosi al meglio con sempre più consapevolezza e meno improvisazione. Il miraggio olimpico ha fatto da detonatore, ma purtroppo i tendini di Cindolo non ne vorranno sapere e sarà costretto a un amaro ritiro, oltre all’ottavo posto di Fava arriverà il quattordicesimo di Massimo Magnani, primo rappresentante della scuola ferrarese.
Terminata la fantastica stagione estiva del ‘77 vola agli antipodi, è ancora carico, è una stagione intensa oltre ogni logica, ma è certo che alla maratona di Auckland, in Australia, può battere il record italiano che Cindolo aveva ottenuto due anni prima a Fukuoka. Un giornalista della Gazzetta dello sport lo segue fino in Australia, alla fine documenta a piena pagina il suo dramma: il cuore lo ha limitato ancora una volta, ha dovuto fermarsi per almeno trenta secondi, un tempo sufficiente a farsi riacciuffare dal forte David Chettle, uno da 2 ore e 10, e una misurazione errata lo priva del primato. È il 30 ottobre 1977. Quello stesso giorno allo stadio di Perugia Renato Curi, un calciatore di serie A, si accascia a terra stroncato da un arresto cardiaco. La Federazione è in allarme, non è facile capire cosa gli succede al nostro più forte fondista. L’anno seguente, a un Campionato italiano di maratonina a Roma, la sua prova è tenuta sotto osservazione da un pulmino bianco, sono i medici dell’Istituto di Medicina di Roma guidata dal professor Dal Monte che registrano i dati dell’elettrocardiogramma, senza arrivare a conclusioni definitive, ma scongiurando pericoli importanti per la sua salute. È un mistero che aleggiava e rendeva ancora più leggendaria e unica la sua figura.
Ma non è giusto parlare solo di tempi, di record inseguiti, e di questa maledetta tachicardia, Franco Fava è un’icona unica per il nostro sport, nei campetti si parlava tanto di lui, sognando di imitarlo. Le foto al tempo erano poche, nessuna inflazione di immagini, ma alcune di queste non potevano che accendere i sogni di chi, giovanissimo, si avvicinava al mezzofondo sulle piste in terra rossa o Bitumvelox. Il 2 luglio 1974 Franco Fava arriverà terzo in una sfida titanica all’Arena di Milano sulla distanza non olimpica ma piuttosto classica dei 3000 metri. Una foto ritrae tre Cristi che sembrano dipinti in un bianco e nero indimenticabile: Fava con una improbabile canotta Phila tira come sempre, ma pure Steve Prefontaine nato attaccante non sta comodo alla corda e sembra incalzarlo, sospingerlo, insidiarlo. Il Pre indossa una canotta Norditalia regalategli dai giovani atleti della Pro Patria Milano, segue Rod Dixon, la canotta all black dei fuoriclasse neozelandese, sarà quest’ultimo, come logica, ad aggiudicarsi la gara in bellissimo 7’41con gli altri due incollati alle chiappe. Poco più di un anno dopo Steve vincerà il suo ultimo 5000 mila metri sulla pista amica di Eugene con addosso la canotta Norditalia al posto di quella di qualche college americano, è l’ultimo sussulto, batte Frank Shorter che sarà grande maratoneta, poi nella notte Steve perde la vita sulla collina di Skyline Boulevard. Fava è stato protagonista di una stagione irripetibile del nostro sport, e lo ha fatto con un tratto distintivo personalissimo che vale più di qualunque medaglia.
Fava detiene ancora il record italiano, quello dei venti chilometri su pista ottenuto durante il tentativo di battere il record mondiale dell’Ora in pista, gara che al tempo molto prestigiosa e frequentata. Gli viene organizzata una gara tutta per lui, la giornata non promette bene, il 9 aprile 1977 allo Stadio dei Marmi si scatena un inferno di acqua, vento e freddo fuori da ogni logica stagionale e geografica, rimandare l’evento non è possibile, Fava è l’atleta ha in tasca un biglietto per il Sud America e non c’è modo di rimandare. Fava scende quindi in campo e con lui altri forti atleti, come il promettente Riccardo Iacona e Paolo Accaputo, personaggio incredibile, una fisicità anonima e un motore organico di qualità inaudita. Fava in un’ora correrà la bellezza si 20 chilometri e 416 metri, misura poi battuta da Giuseppe Gerbi, un altro grandissimo atleta della nostra atletica, la circostanza che il passaggio ai venti chilometri risulti più veloce per Fava desta qualche sospetto sulla correttezza della misurazione di quel giorno allo Stadio dei Marmi.
Vivere stagioni così intense può consumarti in fretta, soprattutto a livello psicologico, a ventisei anni sente già di aver scollinato, di avere dato il meglio, anche se è ancora integro e gli organizzatori se lo litigano per averlo al via, che sia pista, campestre, o strada. In fondo una carriera non troppo lunga, oggi siamo abituati a storie molto più longeve, allora tutto sembrava bruciarsi in fretta, ma con fiammate altissime.
Per Fava si apre una nuova possibilità per vivere ancora nell’ambiente, ma da giornalista. Il 31 agosto 1980 dopo un 5000 metri non brillantissimo a Rieti, sale in sala stampa e scrive il suo primo pezzo per la Gazzetta dello Sport, testata con la quale collabora tutt’ora. Seguirà una esperienza importante a L’Occhio, un quotidiano molto innovativo diretto da Maurizio Costanzo, al tempo personaggio televisivo affermato, con Bontà loro aveva aperto la stagione dei talk show in Italia. L’occhio era una testata molto originale simile a certi magazine inglesi, articoli brevi e incisivi, prime pagine strillate, fotografie a tutta pagina, e più simile a un settimanale, non avrà molta fortuna nel tempo dopo un avvio incoraggiante, ma farà da palestra a Franco Fava come a tanti altri giornalisti.
Il 31 decembre 1980, è in Angola per una Corrida di Capodanno quando da Milano arriva una telefonata: gli viene chiesto di dirigere una nuova rivista, si tratta di Correre
*Articolo già uscito sul mensile Correre